Claudio Spattini, pittore del Novecento, uomo colto, si forma all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove fu allievo di Giorgio Morandi, come si evince chiaramente da diverse sue opere. Numerose sono le correnti artistiche con le quali si confronta senza timore, partecipando a molteplici concorsi dai quali quasi sempre esce vincitore. Attraverso i differenti contatti con altri artisti, non disdegna varie sperimentazioni, ma la sua ricerca trova fine nella pennellata libera di Cézanne, dal quale è stato distintamente influenzato.
Spattini non aderisce mai ad alcuna corrente del momento, poiché questa scelta gli sarebbe costata la libertà di espressione. Le correnti donavano grande visualità e fama ma, di contro, venivano sostenute dalla politica o comunque l’autore era tenuto ad attenersi ai dettami dichiarati nei vari Manifesti, sia per il contenuto che per le scelte cromatiche e stilistiche. Spattini, quindi, sceglie consapevolmente la libertà alla fama. Sono le sue stesse opere a dichiarare i suoi intenti, senza bisogno di manifesto alcuno.
Claudio Spattini, allievo di Giorgio Morandi – dal quale poi però si distacca – costruisce una sorta di alfabeto tramite l’uso arbitrario del colore, un linguaggio attraverso il quale egli dialoga con lo spettatore. Se attento, l’osservatore intuisce che non sono i particolari a dare vita all’opera, ma il colore stesso, usato in ogni occasione in modo diverso. L’artista si interroga sulla vita e riesce a trasportare il suo pensiero sulla tela tramite una pennellata: lenta, più rapida e veloce, oppure allungata o ancora ricolma di colore.
Non sono da sottovalutare i toni che l’artista sceglie per le sue opere: si pensi alla “Natura morta nello studio”, ricolma di oggetti e frutti con i limoni in evidenza, di quella punta di giallo tipica di un limone pronto per essere colto. Egli, di fatto, racconta la gioia perfino quando, durante gli anni di prigionia in Germania durante la guerra, riesce ad ottenere materiale per dipingere. E davanti a un muro sicuramente grigio e la morte dinnanzi agli occhi, egli dipingeva la primavera in fiore con colori ben saldi nella mente, talmente intensi da inebriare l’ambiente intorno, arrivando a costruire una sorta di realtà parallela.
Fortuna volle che il Comandante del campo fosse un amante dell’arte e, incuriosito da quest’uomo dalle grandi capacità, gli chiese un ritratto. L’artista colse la sfida e brandì il suo pennello come il nemico brandiva il fucile. Ne risultò un “lasciapassare” per se stesso e per il gruppo che era con lui. Spattini fa ritorno a casa con un fardello di ricordi drammatici, devastanti tanto da potergli oscurare e adombrare la sua arte, all’inizio incupita ma poi, inaspettatamente, egli continua a creare vita, gioia, appassionante e suggestiva.
Di fronte ad un’opera come “Il balcone fiorito”, l’occhio viene trasportato in mezzo ad un trepidio di colori che proviene dalle tante piante in fiore che rendono un balcone una favola: si avverte perfino il profumo ed infine una gioia apparentemente immotivata, la gioia pura. Quando un artista raggiunge un tale livello di empatia con lo spettatore si può dire che “ha fatto centro”.
Il pennello, per Claudio Spattini, è stato prima di tutto la sua passione, l’arma che gli ha reso salva la vita ma, principalmente, il suo più caro amico, quello al quale può confessare anche i più reconditi segreti, fino all’ultimo giorno della sua lunga vita.
Di Silvia Iorio
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